Omelia del Vescovo di Cefalù
S.E.R. Mons. Giuseppe Marciante
Celebrazione per l'apertura del Giubileo e
ordinazione presbiterale del diacono Patrick Benjamin Fote Ndie
Basilica Cattedrale
Cefalù, 29 dicembre 2024
(1Sam 1,20-22.24-28; Dal Sal 83 (84); 1Gv 3,1-2.21-24; Lc 2,41-52)
Carissimi fratelli e sorelle,
venuti qui per l’apertura dell’Anno Santo da tutti i paesi, da tutte le città, della nostra Diocesi vi saluto con affetto. Saluto le autorità civili e militari qui presenti in questo giorno grande e solenne.
La processione introitale verso la Basilica Cattedrale dalla Chiesa di San Leonardo detta la Badiola, dove abbiamo posto uno dei segni della Speranza dell’Anno Giubilare ha rappresentato il pellegrinaggio del popolo di Dio verso la casa di Dio dove Cristo nostra via ci ha preparato un posto nel cuore del Padre. All’ingresso tutti abbiamo rivolto lo sguardo della Fede verso la santa Croce che porta i simboli della nostra Salvezza, sostanza della nostra Speranza e fonte della nostra Carità.
Dopo aver ascoltato la Parola di Dio, abbiamo cantato il Salmo responsoriale 83 che porta il titolo “Il canto del pellegrino”; esso infatti appartiene a quel gruppo di salmi che accompagnavano i pellegrini in viaggio verso il Tempio nella città santa di Gerusalemme. Abbiamo cantato «Quanto sono amabili le tue dimore». Eusebio di Cesarea, riferendosi alle comunità cristiane, così commenta: «Per me o Signore, sono care e amabili quelle tue dimore nelle quali tu stesso ti sei degnato di abitare, per restare insieme agli uomini, come hai detto: “Dove due o tre sono uniti nel mio nome, lì io sono in mezzo a loro” (Mt 18,20)».
È un canto che trabocca di gioia, quella gioia che il Signore concede a chi lo cerca con cuore sincero.
Il pellegrinaggio é segno del cammino della nostra vita: è importante in questo Anno Santo decidere di compiere nel cuore il santo viaggio. «Beato chi trova in te la sua forza e decide nel suo cuore il santo viaggio».
Si tratta di un cammino spirituale animati da un grande desiderio: raggiungere la casa di Dio per incontrare il volto amico di Cristo, un desiderio che impegna tutta la persona. Così recita il salmo: «L’anima mia anela e desidera gli atri del Signore. Il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio vivente».
Se poi il salmo lo si mette in bocca a chi ha sofferto l’esilio e percorre la via del ritorno nella terra di origine, si capisce perché attraversando la valle del pianto questa diventa una sorgente di vita. Man mano che la meta si avvicina cresce lungo il cammino la forza anziché diminuire: «Beato chi trova in te la sua forza».
La forza viene dalla fede e dalla speranza riposta in Dio, dal vivere con il Signore, dal vivere l’intimità con lui.
Dice il profeta Isaia: «Quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi» (Is 40,31). Che questo possa realizzarsi per ciascuno di noi!
A un certo punto del Salmo compare un Unto: sarà il Re? Il Sommo Sacerdote? Il Messia atteso?
Il Consacrato unisce la sua voce a quella del popolo e canta: «Sì, è meglio un giorno nei tuoi atri che mille nella mia casa; stare sulla soglia della casa del mio Dio (fosse anche come un mendicante) è meglio che abitare nelle tende dei malvagi».
Anche noi abbiamo portato oggi un membro della nostra comunità, Benjamin, da consacrare, da ungere di Spirito Santo per il servizio divino.
Con il salmo noi chiediamo al Signore: “Guarda il volto del tuo consacrato!”.
Le letture che abbiamo ascoltato ci parlano di due unti, di due consacrati: Samuele e Gesù, di due coppie di sposi quella di Elkaná e Anna e quella di Giuseppe e Maria; ci parla di due pellegrinaggi uno a Silo, l’antico santuario del popolo d’Israele, e l’altro al Tempio di Gerusalemme.
La famiglia e la comunità svolgono un ruolo fondamentale perché si pongono al sevizio della crescita umana, culturale e spirituale dei figli, della trasmissione della fede e della libera ricerca della loro vocazione. Nel caso di Samuele, la madre ha un ruolo preponderante. E di lui è stato scritto: «Il giovane Samuele andava crescendo in statura e in bontà davanti al Signore e agli uomini» (1Sam 2,26).
Di Gesù si dice: «Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui», certamente sotto lo sguardo vigile di Giuseppe e Maria.
Samuele dopo lo svezzamento viene condotto e a lasciato al santuario del Signore a Silo, dal sacerdote Eli perché sotto la sua guida impari a servire il Signore.
Gesù, l’ottavo giorno dalla nascita, viene circonciso come segno dell’appartenenza al popolo di Israele, presentato al tempio quaranta giorni dopo la nascita, e a dodici anni partecipa al pellegrinaggio a Gerusalemme che i Genitori compivano ogni anno per la festa della Pasqua.
Possiamo dedurre, da queste notizie, che Gesù ha ricevuto un’educazione tradizionale: ha imparato a leggere, a scrivere, a pregare, a cantare, a interpretare le Scritture nelle sinagoghe. In tale contesto culturale Gesù sviluppa la sua autonomia e la sua risposta originale alla chiamata del Padre suo.
L’azione educativa di Giuseppe e Maria consentirà al figlio di sviluppare la propria soggettività con libertà e responsabilità. Ne è testimone la sicurezza con cui risponde e interroga i dottori del tempio e la risposta data dopo il ritrovamento: «Perché mi cercavate? Non sapevate che devo occuparmi delle cose del Padre mio?».
Commenta Luca: «Essi non compresero ciò che aveva detto loro» (Lc 2,50).
Nella famiglia di Nazareth c’è spazio anche per l’incomprensione, accompagnata certamente dal dispiacere, dal rimprovero, ma seguita dalla riflessione, dal raccoglimento, dal dialogo, da una nuova conoscenza della volontà divina: «Maria custodiva tutte queste cose nel suo cuore» (Lc 2,51). Gesù «Scese dunque con loro e venne a Nazareth e stava loro sottomesso». In questo processo educativo «Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini».
Il contesto in cui Benjamin ha maturato la sua vocazione è rappresentato dalla sua famiglia, che stasera è qui presente in mezzo a noi, e dalla comunità cristiana come ha sottolineato il Rettore, Don Calogero Cerami, nel presentare il candidato.
La mamma Madeleine era membro dell’associazione “Les femmes catholiques”: al mattino presto ogni giorno radunava la famiglia per la preghiera del rosario.
Il papà Jacob, catechista, insegnate e collaboratore del parroco, l’Abbe Isidor, animava la liturgia domenicale quando il parroco, a turno, celebrava la Santa Messa nei villaggi distanti dal centro pastorale.
Incoraggiato dai genitori, Benjamin entrò a undici anni nel gruppo dei ministranti e da quella esperienza la piccola scintilla della chiamata si sviluppo nel desiderio di seguire il Signore nella via del sacerdozio. Ciò che lo convinse della bellezza della vocazione alla vita consacrata al Signore fu la gioia profonda che esprimevano i novelli sacerdoti nel giorno della loro consacrazione.
La gioia di un prete, di essere prete, è la migliore animazione vocazionale per i nostri giovani!
Nel 1997 la mamma fu chiamata al grande passaggio per la vita eterna, Benjamin aveva quattordici anni.
All’età di ventuno anni Benjamin, incoraggiato dal papà e sostenuto dalla sua famiglia decide di iniziare il percorso di discernimento.
Nel 2014, venuto a Roma in pellegrinaggio per chiedere luce e forza per rispondere alla sua chiamata, si lascia guidare da un sacerdote, Don Angel Alba, che nel 2017 lo indirizza a me per una esperienza pastorale presso la parrocchia di Sant’Antonio a Circonvallazione Appia. Nel 2019 Benjamin mi chiede di essere accolto nel nostro seminario di Cefalù.
Oggi constatiamo quanto è vera la parola di Gesù «Non siete voi che avete scelto me, ma sono io che ho scelto voi, e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto sia permanente» (Gv 15,16).
E giustamente tu, carissimo Benjamin, hai scelto come frase da ricordare sempre, pensando al dono del sacerdozio, l’espressione dell’Apostolo Paolo: «Per grazia di Dio, però, sono quello che sono» (1Cor 15,10).
Carissimo Benjamin diventi sacerdote nel giorno in cui nella nostra Diocesi, come in tutte le Diocesi del mondo, diamo inizio all’anno giubilare segnato dalla parola “Spes non confundit” (Rm 5,5), la speranza non delude.
Il sacerdozio a te consegnato è per noi già un segno di speranza. Già la tua vita, il tuo ministero è un segno di speranza per la nostra Chiesa! Attraverso l’esercizio del ministero presbiterale Cristo è presente nella vita sacramentale delle nostre comunità. Dove Cristo regna, la speranza non delude; perché di lui ha il nome, in lui prende corpo, in lui ha compimento.
In questi giorni mi ha coinvolto e commosso un cortometraggio sulla natività in cui gli attori recitano in lingua aramaica: al momento della nascita, il primo vagito del bimbo divino accende una nuova stella in cielo, quella stella che guiderà i magi verso Betlemme. L’ho interpretata come la stella della speranza. É la speranza che muove gli uomini, che stimola la ricerca, che accende i desideri. Occorre seguire la stella della speranza per trovare la sorgente della vita e raggiungere l’immenso mare della felicità dove immergersi.
Concludo con le parole poetiche; parole di una canzone di Simone Cristicchi intitolata “Cerco una parola”:
Cerco una parola, solo una parola…
Cerco una parola potente
Che abbracci il creato e protegga la gente
Una parola piccola, forte come un gigante
Capace di spostare persino le montagne
Scagliata come freccia sul frastuono del niente
Che generi il futuro e partorisca il presente
Una parola davvero importante
Che sia detta una volta e scolpita per sempre.
Cerco una parola soltanto
Che porti sulle spalle tutto il peso del mondo
Da sussurrare come fosse una preghiera
Da accendere nel buio come una candela
Una parola che si faccia frequenza
Che vada oltre gli schemi ed ogni resistenza
Una parola che difenda i diritti
Una parola sola che valga per tutti.
Carissimi, fratelli e sorelle, questa parola noi cristiani, noi credenti, l’abbiamo trovata. Possiamo seminarla questa parola; dobbiamo testimoniarla. La parola è Gesù Cristo, la nostra unica speranza!